Con il progetto WIN, l’Ue ha finanziato due associazioni italiane che sono riuscite a garantire corsi d’italiano e un lavoro stabile ad alcune donne per anni vittime di abusi e violenze.
ono le più invisibili tra le invisibili: non parlano italiano, sono sole, sono spaventate e soprattutto c’è qualcuno che abusa di loro, tutti i giorni. Costrette a prostituirsi per pochi spiccioli che comunque non rimangono a loro, ma vanno alla rete criminale che le sta sfruttando. Per le donne trascinate nella tratta di esseri umani sembra esserci poca speranza. In realtà esistono associazioni che lavorano tutti i giorni per farle uscire da questa situazione: e l’Unione europea ha provato a metterne in rete alcune, finanziando il progetto WIN (trafficked Woman Integration) in Spagna, Bulgaria e Italia. Obiettivo: integrare nella nostra società le donne che sono riuscite a liberarsi dello sfruttamento.
Nel nostro Paese sono state coinvolte due cooperative: Lule Onlus, che da anni è attiva nella lotta alla tratta, ed Energheia, ente accreditato della Regione Lombardia per la formazione e il lavoro. “Per noi è stato il primo progetto europeo, ci è sembrato molto interessante perché ci permetteva di confrontarci con altri Paesi, la Bulgaria e la Spagna” dice Elisa Umidi, coordinatrice dei servizi di integrazione di Lule Onlus. “C’è stato sicuramente un arricchimento anche sul modus operandi dei progetti anti-tratta”.
Il percorso di uscita dallo sfruttamento è molto difficile, e inizia da una scelta personale: “avviene quando è il loro momento”, spiega Umidi. Le unità di strada delle varie organizzazioni anti-tratta valutano se una donna è in una situazione difficile e dovrebbe scappare immediatamente, ma non è detto che quello sia il punto di rottura. “Per questo è molto importante offrire percorsi di integrazione che siano una vera alternativa al mondo della prostituzione: il rischio di rientrare nel circolo dello sfruttamento è molto reale” aggiunge la coordinatrice di Lule.
Quello di integrazione è un percorso a tappe. La prima è la fuga: le organizzazioni anti-tratta hanno a disposizione alcune case protette in cui poter ospitare le donne. Ma come fanno, le vittime di tratta, a scoprire che esiste questa possibilità? “Conosciamo alcune di queste donne” spiega Umidi “Perché le abbiamo incontrare nelle nostre uscite in strada. Esiste in Lombardia in numero verde anti-tratta, e poi riceviamo segnalazioni dalla polizia, o da cittadini, clienti, fidanzati con cui le donne si sono confidate”. Dopo la fuga, le operatrici di Lule fanno un colloquio di valutazione con la donna, per capire di che tipo di protezione ha bisogno e quali territori possono essere pericolosi. “Il primo obiettivo è raggiungere livelli minimi di benessere, come mangiare e dormire serenamente” racconta Umidi. “Diamo loro un posto sicuro, facciamo un check-up sanitario e raccogliamo le loro storie. Da qui parte il lungo cammino per l’integrazione”. I passaggi successivi solo alcune prime lezioni di italiano, e poi un percorso di formazione scolastica e professionale: una vera sfida, visto che molte di queste donne sono analfabete. “È difficile anche sensibilizzare le aziende, per attivare non dico un posto di lavoro, ma solo un tirocinio” spiega la coordinatrice di Lule. “I progetti di integrazione per le donne vittime di tratta durano 18 mesi, ma il più delle volte non sono sufficienti”.
Ma sono più le donne che proseguono che quelle che rinunciano. La maggior parte decide di rimanere in Italia e non di rimpatriare. Quasi tutte riescono a ottenere un lavoro: non un full time, ma un impiego che permette loro di guadagnare uno stipendio sufficiente a sopravvivere. “La fatica successiva poi è trovare una casa; è difficile trovare qualcuno che fa un contratto d’affitto a una ex prostituta che lavora part time” spiega Umidi.
Solo nel 2020, in Italia sono state prese in carico dal Sistema Nazionale Antitratta 2040 donne. Il 72% viene dalla Nigeria, poi dalla Costa d’Avorio, dal Pakistan, dalla Zambia e dal Marocco. In tutta Europa parliamo di quasi 18mila donne vittime di tratta, di cui il 56% proveniente da Paesi extra-UE e il 46% sottoposto a sfruttamento sessuale. Donne che hanno diritto a una vita dignitosa, sana e soprattutto libera: questo è l’obiettivo del progetto WIN, finanziato dal fondo europeo AMIF (Asylum, Migration and Integration Fund) e che ha coinvolto per due anni cinque organizzazioni anti-tratta in tre paesi europei: Italia, Spagna e Bulgaria. “Siamo molto soddisfatte di come è andato il progetto” dice Elisa Umidi. “Abbiamo coinvolto 15 delle donne che già conoscevamo e che avevano fatto il primo percorso di uscita dalla prostituzione”. 13 di loro hanno trovato un lavoro o uno stage retribuito. Per ogni donna il progetto prevedeva un piano di intervento personalizzato, con corsi di lingua italiana, di formazione professionale dall’informatica alla ristorazione, un supporto psicologico e uno lavorativo.
“So che le donne si sono sentite seguite, perché hanno avuto due punti di riferimento diversi” spiega Umidi. “Noi di Lule per la parte psicologica, educativa e legale, e poi i colleghi di Energheia per tutto quello che riguardava il lavoro e la formazione”. Non è mancata una parte di sensibilizzazione e coinvolgimento per le aziende, per spiegare loro che queste donne non sono solo vittime, ma risorse, che hanno difficoltà ma anche potenzialità: alcune di queste aziende hanno contattato Lule ed Energheia per attivare dei tirocini. Le donne coinvolte conoscevano già un minimo di italiano, ed erano regolari (o quasi regolari) con i permessi di soggiorno, per rendere più facile la ricerca di un lavoro.
Fonte: MilanoToday